Dovish! No hawkish...
Spettacolare cambiamento di mood nel corso delle comunicazioni seguite al meeting della FED
Spettacolare cambiamento di mood nel corso delle comunicazioni seguite al meeting della FED di ieri. Lo statement iniziale aveva degli elementi dovish, probabilmente una concessione alle colombe all’interno del board.
In particolare, questa frase è stata letta come un ammorbidimento della posizione della FED:
“The committee will take into account the cumulative tightening of monetary policy, the lags with which monetary policy affects economic activity and inflation, and economic and financial developments.”
Non un “pivot” ma una frase di buon senso: si terrà conto del fatto che i rialzi effettuati fino ad ora sono stati importanti e che questi operano con un certo ritardo.
Il mercato ha reagito con un rialzo e questo ha probabilmente influenzato anche l’atteggiamento di Powell nella conferenza stampa. Il presidente della FED in questo momento non vuole in nessun modo fornire il semaforo verde per un rialzo che allenterebbe le condizioni finanziarie rendendo vano parte del lavoro fatto fino a qui.
Dunque Powell ha assunto un atteggiamento hawkish nella conferenza stampa aggiungendo alcuni punti importanti.
1) Ci saranno altri rialzi e il tasso terminale sarà più alto di quel 4.6% atteso in occasione dell’ultimo meeting (5%?)
2) È prematuro parlare di una pausa e non è una cosa cui la FED pensa
3) In termini di risk management è preferibile alzare troppo (perché poi eventualmente si avrebbero i mezzi per sostenere l’economia) piuttosto che fare troppo poco e rendere l’inflazione strutturale.
Detto questo, non si è escluso un rallentamento dal prossimo meeting o da quello successivo, anche in assenza di un deciso calo dell’inflazione. 50 basis points di rialzo a dicembre è a questo punto la cosa più probabile in assenza di grosse sorprese dal lato inflazione.
Se vogliamo depurare il messaggio da tutto il rumore di fondo il succo è il seguente.
La FED rimane determinata a contenere l’inflazione rallentando l’economia. I rialzi effettuati fino a qui non sono sufficienti ma sono importanti: la FED non è così “behind the curve” come alcuni mesi fa. È ragionevole che il ritmo dei rialzi diminuisca il che non necessariamente significa un “pivot” della politica monetaria.
Il messaggio però, più sottile e meno esplicito, che si ritrova nel riferimento a quei “financial developments” nello statement iniziale, è che il vero trade-off non è tra restrizione monetaria ed economia ma tra restrizione e stabilità finanziaria.
È l’instabilità finanziaria in un contesto di grande illiquidità lo spettro che spaventa i banchieri centrali più del rallentamento dell’economia. È l’instabilità la vera minaccia alla credibilità perché, come si è visto nel caso britannico, i banchieri centrali sono obbligati ad intervenire in presenza di gravi disfunzioni del mercato finanziario. Più volte, nei giorni scorsi, la stessa Yellen ha espresso preoccupazioni relativamente al funzionamento del mercato dei Treasuries.
Questi interventi rischiano anche di segnare il limite oltre il quale la politica monetaria in questo momento non può spingersi. E che cosa succede se le banche centrali mostrano il limite oltre il quale non possono spingersi e l’inflazione non scende?
Comunque, ora l’attenzione torna ai dati. Prima il report sul mercato del lavoro di venerdì in cui come non mai bad news sarà good news e poi i due dati sull’inflazione da qui al prossimo meeting.
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