La nuova faccia della crisi
L'impressione è che la crisi che stiamo vivendo i questi giorni stia assumendo nuovi connotati
Il trimestre che si è appena chiuso ha visto i mercati terminare su nuovi minimi. L’indice S&P 500 ha perso il 9.2% a settembre ed è ora a -24% da inizio anno. L’indice obbligazionario Bloomberg Global Aggregate ha perso più del 5% nel corso del mese ed ora si trova a -19% da inizio anno.
La concomitanza dei ribassi tra asset class in genere negativamente correlate ha generato performance particolarmente negative per i portafogli diversificati tradizionali. Nel grafico sotto è riportata la performance del classico portafoglio diversificato 60/40 (60% US total stock market, 40% Treasuries a 10 anni) che ora perde più del 21% e fa segnare la peggiore performance degli ultimi decenni (Fonte Portfolio Visualizer).
L’impressione è che la crisi stia assumendo nuovi connotati.
I ribassi azionari erano iniziati sostanzialmente come una contrazione dei multipli a seguito di banche centrali che avevano spinto i tassi reali al rialzo per contenere l’inflazione.
Tutti si aspettavano che la prossima fase fosse quella della contrazione degli utili delle imprese.
Questi ultimi giorni hanno però portato alla ribalta anche ulteriori temi che sono destinati ad assumere un peso sempre più rilevante:
Il pericolo di disfunzioni di mercato. Ne è stato un esempio il caso dei rialzi dei rendimenti del Gilt a seguito della presentazione di un inatteso piano di tagli fiscali finanziati da debito in Gran Bretagna. La velocità del movimento dei tassi ha obbligato BOE ad un clamoroso dietrofront rispetto alle aspettative di inizio del QT. La banca centrale è stata infatti costretta ad intervenire con acquisti di titoli per evitare il default di alcuni fondi pensione che avevano hedgiato con derivati il rischio di ribassi dei tassi che potessero far salire il valore attuale delle loro passività. I contratti derivati hanno dato luogo a pesanti perdite e conseguenti richieste di collaterale che i fondi pensione non potevano soddisfare se non con una precipitosa vendita di titoli di stato che avrebbe alimentato ancora di più la spirale delle perdite.
L’illiquidità. Episodi come quello che ha costretto BOE ad intervenire possono formarsi in qualsiasi momento completamente inaspettati vista la velocità dei movimenti dei prezzi che non consente ai mercati di aggiustarsi gradualmente. Ciò che preoccupa non sono tanto i livelli quanto la rapidità delle variazioni. Tutto questo è amplificato da una illiquidità di fondo che caratterizza non solo le asset class tradizionalmente più illiquide, come per esempio gli high yield, ma anche quelle generalmente estremamente liquide come i Treasuries. Il deterioramento della liquidità ha origini lontane che vanno ricercate soprattutto nella regolamentazione dell’attività delle banche seguita alla grande crisi finanziaria e che aveva lo scopo di renderle più solide. Il fatto di richiedere più capitale a fronte delle diverse attività delle banche ha fatto però sì che alcune di esse, come il market making, diventassero molto meno remunerative e venissero tagliate. Un mercato senza market making è un mercato senza spessore, in cui la porta d’uscita è spesso troppo stretta e non vi è la consistenza per contenere l’effetto negativo sui prezzi dei flussi di vendita.
Il ritorno di FX e bond vigilantes. Il caso britannico ha mostrato come il contesto sia cambiato rispetto ad alcuni mesi fa quando si poteva far fronte a qualsiasi shock attraverso politiche monetarie e fiscali espansive senza praticamente nessun effetto sui mercati finanziari. Oggi invece gli operatori finanziari sono pronti a scrutinare la sostenibilità di bilancio delle politiche di supporto e a reagire aggressivamente quando queste appaiano insostenibili. Si è creato quindi un potenziale conflitto tra stabilità finanziaria e politiche fiscali espansive. Questo è particolarmente rilevante in un periodo in cui i paesi europei sono chiamati a mettere mano al portafoglio per far fronte ai costi della crisi energetica.
La forza del dollaro. Solo gli Stati Uniti sono in questo momento immuni dal giudizio del mercato grazie allo status del dollaro quale valuta di riserva e safe heaven asset che fornisce agli Stati Uniti stessi un grande vantaggio rispetto agli altri paesi. Gli interventi della banca cinese e giapponese per sostenere le proprie valute rispetto al dollaro indicano però che la forza del biglietto verde comincia ad essere vissuta con estremo disagio. La forza del dollaro fa precipitare le altre valute le cui banche centrali si vedono costrette a rialzi violenti dei tassi in una spirale che rischia di far implodere i mercati. Un dollaro che continua nella sua salita è uno degli elementi più destabilizzanti di questo mercato.
Molte volte in settimana si è fatto riferimento al Plaza Accord del 1985 in cui i paesi del G5 (Francia, Germania, USA, UK e Giappone) decisero di indebolire il dollaro contro Marco e Yen al fine di sanare gli squilibri delle bilance commerciali. I tempi non sono ancora maturi per un intervento del genere in quanto agli Stati Uniti fa comodo un dollaro forte per contenere l’inflazione, anche a costo di una minore competitività nel commercio mondiale. Tutto nel segno del detto “our currency, your problem”.
L’episodio di BOE mostra però quanto un mercato messo così sotto pressione possa creare disfunzioni tali da diventare un problema potenzialmente anche per gli Stati Uniti. Diversi commenti da parte di esponenti della FED hanno dimostrato come una maggiore attenzione cominci ad essere prestata a questioni attinenti alla stabilità finanziaria. Quando la banca centrale statunitense riterrà di voler rallentare la disgregazione dei mercati, in un contesto in cui l’instabilità deriva in primo luogo da tassi e valute, è probabile che la FED put sul mercato azionario degli anni scorsi si trasformi in una FED call sul dollaro.