Rischio-rendimento: level 2
Rischio-rendimento: level 2
La moderna teoria di portafoglio ci ha lasciato in eredità una rappresentazione di un rischio che corrisponde alla volatilità dell’asset. A volatilità crescenti siamo abituati ad associare rendimenti attesi crescenti.
Sappiamo però anche bene che la volatilità non è sempre un rischio. A volte potrebbe anche essere una opportunità e in alcuni casi è addirittura dannoso considerarla un rischio in quanto induce a rischiare troppo poco chi avrebbe tutto il tempo per recuperare oscillazioni dei mercati.
Non aiuta inoltre a spiegare gli scarsi rendimenti attesi di asset safe heaven molto volatili come il VIX per esempio.
Al tempo stesso, la comprensione dei veri driver dei rendimenti di lungo periodo va spesso oltre il concetto di una remunerazione richiesta a fronte delle oscillazioni del valore dell’asset.
Nel predisporre un’asset allocation di lungo periodo appare invece molto più importante capire quali sono i reali driver di rischio e rendimento di lungo periodo.
Quali sono i driver di rendimento di lungo periodo?
I driver che giustificano il fatto che un asset garantisca un certo premio al rischio di lungo periodo sono sostanzialmente di due tipi:
Quelli legati alla rischiosità dell’asset
Quelli legati a fattori comportamentali
Per quanto riguarda il primo tipo, Illmanen (2021) dice che asset che performano male in tempi difficili (periodi di alta volatilità, crisi finanziarie, recessioni, ecc.) sono più rischiosi e devono quindi garantire un premio al rischio più elevato.
Ad esempio, nel CAPM il premio al rischio è proporzionale al beta dell’azione cioè alla parte di rischio sistematico che non può essere eliminato attraverso la diversificazione. Maggiore il rischio non diversificabile maggiore deve essere il rendimento atteso.
I safe heaven performano invece bene in tempi difficili e, per questo, gli investitori sono disposti a detenerli in portafoglio anche per un rendimento atteso molto basso o addirittura negativo.
Per quanto riguarda il secondo tipo di driver di rendimento, vi sono dei fattori di tipo comportamentale, o legati alla struttura del mercato che determinano la persistenza di un certo premio al rischio.
Per esempio, il momentum nasce da una iniziale sottoreazione alle nuove informazioni e poi al formarsi di un effetto gregge quando invece il trend si è innescato che tende a far perdurare il movimento.
Un altro caso è quello delle azioni a bassa volatilità, la cui sovraperformance di lungo periodo nasce dal fatto che i gestori di fondi che non possono andare a leva preferiscono azioni ad alto beta per tentare di sovraperformare il benchmark consentendo così a quelle a basso beta di essere acquistate a prezzi convenienti rispetto al loro valore dagli investitori.
A metà tra remunerazione del rischio e motivazioni comportamentali vi è quella che secondo me è una delle maggiori determinanti del premio al rischio di lungo periodo e cioè la cosiddetta skewness preference.
Gli investitori sopportano molto male di avere in portafoglio asset a rischio cigno nero, con una distribuzione dei rendimenti con una coda sinistra più lunga (skewed a sinistra), come le azioni per esempio. Comprano questi asset solo a prezzi che gli garantiscono un importante premio nel lungo periodo.
Al contrario, amano le asimmetrie positive della distribuzione. Amano quindi tenere in portafoglio asset come il VIX, che ogni tanto danno grandi vincite, un po’ come la lotteria. Per queste distribuzioni sono disposti a pagare più del loro valore e questo nel lungo periodo produce rendimenti attesi molto bassi.
Qual è invece il rischio di lungo periodo?
Abbiamo già detto che la finanza moderna considera le oscillazioni dell’asset come il suo unico rischio. In realtà la volatilità è un rischio solo se si è costretti a smobilizzare in perdita. Se non si ha bisogno di quei fondi la volatilità può essere ignorata.
Un rischio vero potrebbe essere quello di non raggiungere i propri obiettivi. Per esempio, non avere un capitale sufficiente quando si va in pensione.
Al tempo stesso, investimenti poco volatili potrebbero erroneamente essere considerati come sicuri. Ad esempio, ad alcune cartolarizzazioni figlie dell’ingegneria finanziaria, nel 2008 fu assegnato un rating AAA. Si presentavano come molto stabili in effetti, salvo poi esplodere durante la crisi.
Bernstein (2013) distingue tra shallow risk, un rischio superficiale causato da volatilità di breve termine che può essere recuperata, e deep risk, cioè a fattori che possono determinare una perdita permanente. In particolare, vi sarebbero quattro forme di deep-risk:
Iperinflazione
Prolungata deflazione
Devastazione
Confisca
È molto interessante notare come i maggiori bear market della storia si siano prodotti proprio sui bond e non sulle azioni, generalmente considerate più rischiose guardando solo alla volatilità (in Germania e Giappone dopo la seconda guerra mondiale ma grandi perdite in termini reali si sono prodotte anche in altri paesi europei).
Tristemente, visti i venti di guerra che si sono riaffacciati molto vicini a noi, anche alcuni degli altri grandi rischi enunciati da Bernstein, quali confisca e devastazione, che avevamo completamente rimosso dalla lista delle possibilità negli ultimi tre decenni di pace, tornano ad essere di attualità facendo apparire la volatilità solo come una distrazione temporanea.